Ammalato di Coronavirus, chiede il tampone dal 5 marzo ma non gli viene effettuato e non può riprendere a lavorare

Riceviamo e pubblichiamo questa drammatica testimonianza:

Di coronavirus ha perso il papà; di coronavirus si sono ammalati lui, la mamma, la sorella e il cognato, salvato per miracolo; di coronavirus è anche in malattia “forzata”, nel senso che non può riprendere il suo lavoro perché non è ancora riuscito a sottoporsi a quel tampone che non gli hanno incredibilmente mai effettuato. E con molta probabilità dovrà aspettare ancora un pezzo.

E’ una vicenda assurda, oltre che tragica, quella che sta vivendo un quarantottenne di Milano dipendente di Studio3A-Valore S.p.A., società con sede direzionale a Venezia specializzata a livello nazionale nel risarcimento danni e nella tutela dei diritti dei cittadini, che in queso caso si è trovata a supportare non un “normale” assistito, ma un proprio collaboratore.

Una storia che inizia la sera del 5 marzo 2020 quando il padre ottantanovenne del consulente personale di Studio3A, che aveva i normali acciacchi dell’età ma che non soffriva di gravi patologie, spira all’ospedale Niguarda dov’era arrivato solo il giorno prima, il 4 marzo, con i classici sintomi del virus, in particolare tosse e difficoltà respiratorie che avevano spinto i suoi cari a chiamare l’ambulanza: i medici gli fanno il tampone, che risulta positivo, ma il Covid lo stronca in poche ore. I suoi familiari, a cui viene persino consentito di dare l’ultimo saluto alla salma, nell’immenso dolore che stanno vivendo chiedono di potersi sottoporre a loro volta al tampone, dati gli stretti contatti avuti con la vittima, ma viene detto loro di tornare a casa e che sarebbero stati contattati dall’Ats, l’Agenzia di Tutela della Salute.

Ma non chiama nessuno. Il quarantottenne telefona ai vari numeri dell’Agenzia, ma è impossibile prendere la linea, chiede consigli al proprio medico di famiglia, l’unico che aiuterà lui e i suoi cari ma che non può fare di più se non raccomandare loro di restare in casa in quarantena. A quel punto scrive una mail all’Ats, spiegando che il padre è morto per coronavirus, descrivendo la sintomatologia che anche lui e i suoi familiari, tutti contagiati, cominciano ad presentare, e richiedendo con urgenza il tampone.

L’Agenzia finalmente risponde, via mail, ma obietta che nelle loro condizioni il tampone non è necessario. Una settimana dopo anche il cognato sarà trasportato d’urgenza all’ospedale, dove resta per due settimane intubato e in grave pericolo di vita. Lui e la sorella il “coronavirus” se lo fanno tutto a casa, con più di una settimana di febbre a 39 nonostante gli antipiretici e altre tre di alterazione meno forte, così come l’anziana mamma, che passa giorni e giorni attaccata alla bombola dell’ossigeno. L’Ats li chiamerà un paio di volte, per sapere come stanno il cognato e il padre, che all’Agenzia risulta ancora in vita! Ma il tampone non glielo faranno mai fare.

Superato (si fa per dire) il grave lutto, e superata la malattia, il quarantottenne vorrebbe voltare pagina, riprendere per quanto possibile la sua vita e ricominciare a lavorare. E con la fine del lockdown, a inizio maggio, Studio3A, che gli è sempre stato vicino nei mesi precedenti, lo fa sottoporre subito, come da normative, alla visita con il medico del lavoro. Il quale però, a fronte del fatto che il dipendente ha chiaramente contratto e sviluppato il virus, richiede ovviamente, per riammetterlo al lavoro, l’effettuazione di un tampone. E ricomincia l’incubo. Perché, nonostante la Regione Lombardia, con delibera del 12 di maggio, abbia introdotto la possibilità di realizzare i test anche nei laboratori privati, a pagamento, la procedura non è per nulla semplice e, soprattutto, bisogna prima sottoporsi al test sierologico: solo in caso di positività, che nello specifico è pacifica, si può richiedere il tampone. Dopo varie peripezie, il consulente è riuscito a fissare l’appuntamento per il 5 giugno, per un test sierologico che sa già darà risultato positivo: poi dovrà prenotare e fare anche il tampone. E attendere l’esito. Un’odissea senza fine.

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