Chiusa l’inchiesta per caporalato ai danni di Uber eats

Il Tribunale di Milano, nella persona del pm che ha gestito il procedimento Paolo Storari, ha chiuso le indagini a carico di Uber Eats accusata di caporalato ai danni dei rider che lavorano per la società.

Lo scorso maggio l’azienda era stata commissariata. Si trattava del primo provvedimento di questo genere preso nei confronti di una piattaforma di delivery.
Gli indagati sono dieci e comprendono anche la manager Gloria Bresciani che, in un’intercettazione telefonica con un suo collega aveva detto: “Ti prego, davanti a un esterno non devi dire mai più ‘abbiamo creato un sistema per disperati’. Anche se lo pensi, i panni sporchi vanno lavati in casa e non fuori”.
L’accusa di caporalato nasce dal fatto che l’azienda impiegasse società terze per reclutare i rider e farli lavorare in regime di sfruttamento. Questo gioco era possibile facendo leva sullo stato di necessità.
La maggior parte dei ragazzi che prestava servizio, infatti, era costituita da immigrati irregolari e da richiedenti asilo che soggiornava nei centri di accoglienza.
Spesso i ragazzi erano retribuiti 3 euro a consegna lavorando a cottimo ma c’erano anche altre forme di vessazione che scattavano in maniera del tutto arbitraria se i lavoratori non rispettavano le regole aziendali.

Tra queste la sottrazione delle mance, la decurtazione del compenso pattuito, la sospensione dei pagamenti e delle ritenute d’acconto che venivano operate.
A volte accadeva persino che i rider si vedessero sospendere l’account e finissero così estromessi dal giro delle consegne.
Nell’avviso di chiusira delle indagini si legge: “Così i riders venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione retribuitivo e trattamentale, come riconosciuto dagli stessi dipendenti Uber”.

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