Un occhio all’album del calcio, con tutte quelle vecchie foto. Questo ci è capitato nei giorni scorsi e tanto ci ha portato al racconto di tempi in cui si andava allo stadio con la giacca, con la cravatta, per ammirare i grandi campioni.
Anche se non è tecnicamente corretto far paragoni, siamo convinti che quei giocatori troverebbero ancor oggi dei posti di rilievo nelle squadre del nostro campionato.
Prendiamone tre e non a caso: Angelillo, Sivori e Maschio. I tre “Angeli Dalla Faccia Sporca” nomignolo affibbiato poiché uscivano dal campo coperti di fango e terriccio.
Divennero presto famosi dopo aver vinto il Campeonato Sudamericano de Futbol (l’attuale Copa America). Vestivano la maglia dell’Argentina e dopo quel trionfo, superando un Brasile che l’anno dopo avrebbe vinto il mondiale di Svezia, per i tre giovani si aprirono le porte dell’Italia calcistica. Non vi militavano, allora, molti sudamericani. Più ricercata, diciamo così, era la scuola scandinava. Nordahl, Gren e Liedholm del Milan; l’ala mancina Skoglund, all’Inter; il giovane Selmonsson all’Udinese. Facevano eccezione, citando i più famosi, le presenza di Julinho e Montuori, nella Fiorentina scudettata del ’56, di Luis Vinicio, preso dal Napoli nel ’55 e Schiaffino dal Milan dopo i mondiali di Svizzera.
Dicevamo, Maschio-Sivori-Angelillo. Tanta roba.
Humberto Maschio: nato nel 1933, proveniva dal Racing. Una mezzala di buon passo, dall’ottima struttura fisica. Ovviamente non mancava la tecnica che sfruttava con il tiro dalla distanza e la grande capacità di calciare le punizioni. Venne ingaggiato dal Bologna.
Enrique Omar Sivori: nato nel 1935, talento del River Plate. Funambolico giocatore. Mai visto uno così padrone della palla, prima di Maradona. Punta scintillante e realizzatore implacabile, specie sotto misura. Dal carattere non certo malleabile diventava carognesco nei confronti degli avversari i quali non mancavano di accarezzargli le caviglie. Fu la Juventus ad arrivare per prima.
Antonio Valentin Angelillo: il più giovane, nato nel ’37, e secondo noi il migliore. Ingaggiato dal Boca Junior. Un centravanti con il passo da mezzala. Ambidestro e bravo di testa. Capace di segnare e far segnare. Un giocatore aureo che ha fatto scintillare San Siro e la Milano calcistica.
Dopo l’arrivo in Italia, le strade si sono spesso incrociate e non solo per le sfide tra le loro squadre.
Per Maschio l’avventura con il Bologna non si rivelò fruttifera. L’anno dopo si riprese giocando splendidamente nell’Atalanta. Due stagioni in provincia lo riportarono a buoni livelli tecnici, tanto da guadagnarsi un ingaggio con l’Inter, nel 1962. Contribui a vincere lo scudetto, ma non incontrò i favori di Helenio Herrera. Del resto lo stesso H.H. fu l’artefice della cessione di Angelillo alla Roma.
Secondo Herrera, il campione argentino non era adatto ai suoi schemi. In più aveva opzionato Luis Suarez dal Barcellona. Troppo per un egocentrico come lui avere a che fare con due giocatori di grande personalità.
Seppure non fossero di gran voga le gare in notturna, fu Antonio Valentin a portare le primi luci a San Siro. Nel 58-59 segnerà 33 reti. Un record ineguagliato per i campionati a 18 squadre. Nell’Inter giocherà 127 gare, realizzando 77 gol.
Si diceva degli incroci di Maschio, Sivori e Angelillo. Avvennero anche con la maglia azzurra della nazionale. Nel ’62 l’Italia doveva riscattare la brutta eliminazione dal Mondiale di Svezia. Obbligata dalla “storia” ad andare in Cile. Riparò sugli oriundi, immemori che proprio i sudamericani naturalizzati (Chiggia, Schiaffino, Montuori e Da Costa) poco fecero, nel ’58, per farci passare. Tra il ’61 e il ’62, convocazioni per molti stranieri. Altafini, Sivori, Maschio, Angelillo, Lojacono, tra li altri. Qualificazioni che non si erano messe bene dato che in una gara con Israele perdevamo e si riuscì a vincere grazie a una doppietta di Mario Corso. Italianissimo e altro gran mancino nerazzurro, che poi non venne convocato. Corso, al quale Gianni Brera affibbiò l’appellativo di “participio passato del verbo correre” a causa delle sue scarse doti dinamiche. Mariolino fu viceversa un altro uomo di grande classe. Si vendicò, in quel ’62, durante un’amichevole contro la Cecoslovacchia, passata da San Siro prima di volare in Cile dove sarebbe arrivata seconda. Bene, Corso dribblò mezza difesa e segnò. Subito si diresse sotto la tribuna dove c’erano i selezionatori azzurri e dedicò loro un clamoroso gesto dell’ombrello.
Neppure Angelillo venne convocato per il Cile. Ci andarono Maschio e Sivori. Lo juventino giocò la prima gara (uno 0-0 con la Germania) Maschio la seconda contro il Cile e subì un cazzotto sul naso da Lionel Sanchez in una partita che di calcio non ebbe nulla. Solo botte e intimidazioni da parte dei padroni i casa. Fummo eliminati.
Tuttavia io ricordo Angelillo. Il suo incedere. Un’eleganza rara, tanto erano raffinati e coordinati i suoi movimenti. Sembrava giocasse senza mai togliere lo smoking. Per lui la mia ammirazione fu unica. Molti anni dopo, tornò ad occuparsi di Inter e fu lui a scoprire, Javier Zanetti. Ricordo che il giorno della presentazione di quello che diventerà il capitano del triplete, salimmo con lui in ascensore. Io dissi al mio operatore, Enea Sansaro “Enea, siamo di fronte a un monumento”. Angelillo si schernì. Aveva una voce baritonale e disse: “Si ricordano di me solo quando uno segna 30 goal, sà per via del titolo…per il resto non sanno neppure se sono vivo”.
Finisco con un aneddoto su Omar Sivori, tanto per dare un’idea di quanta fosse la sua grandezza, sommata alla irriverenza nei confronti di chiunque. Compagni e avversari.
Nella mia vita da giornalista ho avuto il piacere d’incontrare Sergio Brighenti. Egli ha giocato nell’Inter, nel Padova e nella Sampdoria. Un attaccante micidiale. Siamo diventati buoni amici e spesso veniva ospitato nelle trasmissioni da me condotte.
Una volta approfittai della sua buona memoria per chiedergli di un episodio di cui fui spettatore. Mio padre mi regalò, in un settembre del 1959, un biglietto per la partita Padova-Juventus. Fui allora premiato per un buono (tuttavia episodico) andamento scolastico. I bianconeri stavano vincendo largo, solo nel finale, dopo un’agguerrito assedio biancoscudato. Il Padova aveva subito goal all’inizio su una punizione di Cervato da trenta metri. Stacchini e Stivanello (un ex) avevano segnato dal 40mo della ripresa in poi. All’ultimo minuto l’arbitro (se non ricordo male, Marchese di Napoli) assegnò un rigore che Sivori trasformò mandando il portiere patavino Pin dal lato opposto. Subito ci fu il fischio finale. In quel momento vidi Pin (un triestino grande e grosso) rincorrere Sivori, il quale se la dava a gambe levate verso lo spogliatoio. Fu Brighenti, appunto, a soddisfare la mia curiosità sull’accaduto durata oltre trent’anni “Successe – mi disse Sergio – che Sivori gli aveva indicato l’angolo dove avrebbe tirato, così sul tre a zero, per fargli fare bella figura. Invece lo fregò. Ecco cos’è successo, Sivori è sempre stato così…” .
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