Lo scorso maggio l’azienda era stata commissariata. Si trattava del primo provvedimento di questo genere preso nei confronti di una piattaforma di delivery.
Gli indagati sono dieci e comprendono anche la manager Gloria Bresciani che, in un’intercettazione telefonica con un suo collega aveva detto: “Ti prego, davanti a un esterno non devi dire mai più ‘abbiamo creato un sistema per disperati’. Anche se lo pensi, i panni sporchi vanno lavati in casa e non fuori”.
L’accusa di caporalato nasce dal fatto che l’azienda impiegasse società terze per reclutare i rider e farli lavorare in regime di sfruttamento. Questo gioco era possibile facendo leva sullo stato di necessità.
La maggior parte dei ragazzi che prestava servizio, infatti, era costituita da immigrati irregolari e da richiedenti asilo che soggiornava nei centri di accoglienza.
Spesso i ragazzi erano retribuiti 3 euro a consegna lavorando a cottimo ma c’erano anche altre forme di vessazione che scattavano in maniera del tutto arbitraria se i lavoratori non rispettavano le regole aziendali.
Tra queste la sottrazione delle mance, la decurtazione del compenso pattuito, la sospensione dei pagamenti e delle ritenute d’acconto che venivano operate.
A volte accadeva persino che i rider si vedessero sospendere l’account e finissero così estromessi dal giro delle consegne.
Nell’avviso di chiusira delle indagini si legge: “Così i riders venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione retribuitivo e trattamentale, come riconosciuto dagli stessi dipendenti Uber”.