Dopo l’accoglimento della richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti, a Julian Assange è stato concesso di appellarsi contro questa decisione.
Lo stesso tribunale, a dicembre 2021 aveva ribaltato la sentenza di primo grado che aveva negato la consegna del programmatore australiano cinquantenne alla giustizia americana, paese dove rischia fino a 175 anni di carcere per avere diffuso 500 mila documenti, coperti da segreto, che riguardano le operazioni militari americane in Afghanistan e Iraq.
Assange rimane quindi nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh a Londra, ultimo domicilio dopo una lunga serie di vicissitudini che lo hanno visto dapprima ospite di un’altra prigione londinese per l’accusa di stupro contro due donne svedesi, poi rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador per sfuggire all’estradizione e, da ultimo, nella prigione attuale.
Assange è colui che, prima in autonomia con la sua società Wikileaks e poi con la collaborazione di testate giornalistica come New York Times, Guardian, Der Spiegel, Le Monde ed El Pais, ha reso noti documenti secretati che riguardavano la repressione cinese della rivolta tibetana, le purghe contro l’opposizione in Turchia, la corruzione nei Paesi arabi, le esecuzioni sommarie compiute dalla polizia keniota.
Fino a quando a questa già nutrita lista non si è aggiunto il Governo degli Stati Uniti. I documenti, in questo caso, riguardavano la gestione di Guantanamo, le primarie che hanno portato all’affermazione di Hillary Clinton ai danni dell’altro papabile Bernie Sanders e la gestione della missione in Iraq.