“Io facevo i miei film, si facevano i poliziotteschi all’italiana e due, tre grossi registi, non voglio fare nomi, si facevano l’aureola con Sciascia. Però chi ha avuto i picciotti sotto casa, i film sequestrati, le querele dei ministri, sono stato io, non quelli che si facevano l’aureola con Sciascia. Genio al quale mi prostro. Quando io faccio “Il poliziotto è marcio”, non faccio “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, che può essere un film migliore del mio, non dico di no, ma li abbiamo a che fare con un nevrotico, chiaro?… Mentre nel mio film abbiamo a che fare con un poliziotto che si fotteva i soldi: ed è questo che è rivoluzionario, non quello”.
(Fernando Di Leo)
Fernando Di Leo, è stato uno di quei registi che ha dato l’anima al cinema, bistrattato e sottovalutato dalla critica, da lui odiata, ma sempre apprezzato dal pubblico del famigerato botteghino. Rivalutato quasi post-mortem con tanto di Requiem “Tarantiniana”, ha segnato un’epoca, precursore del genere poliziesco italiano, denominato volgarmente dall’Intellighenzia: “Poliziottesco”. Autore della celebre: “Trilogia del Milieu“, composta da: “Milano calibro 9”, “La Mala ordina”, “Il boss”, Nel 1974 porta sul grande schermo: “Il poliziotto è marcio”, con protagonista Luc Merenda, lontanissimo dai commissari di ferro, ma parente stretto degli antieroi del noir, con cui divide un tragico destino.
“Inevitabile il confronto con il più celebre: “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, diretto da Elio Petri, e interpretato da Gian Maria Volonté, uscito nelle sale precedentemente. Ma, se nel film di Petri, che parte dall’ipotesi dell’immunità dei poteri forti, l’alto funzionario di polizia nevrotico è paranoico, si nasconde protetto dallo scudo rappresentato dalla sua autorità, Di Leo usa una messinscena più corrosiva, immediata nello sbattere in faccia allo spettatore la figura di un commissario marcio, corrotto dalla malavita. Il regista pugliese prosegue la sua personalissima strada del Noir poliziesco confezionando una pellicola superiore alla media di genere, affrontando il tema della corruzione, non rinunciando ad alcune scene d’azione spettacolari che certamente destano interesse tra rocamboleschi inseguimenti e violente sparatorie.
Il commissario Domenico Malacarne, in servizio presso la Questura di Milano, figlio di un integerrimo maresciallo dei Carabinieri (Salvo Randone) è un funzionario corrotto che riesce a guadagnare molto denaro grazie alle tangenti ricevute da una banda di contrabbandieri di sigarette capeggiata da due boss mafiosi, Mazzanti (Richard Conte) e l’Italo francese Pascal (Raymond Pellegrin). Il giorno in cui i suoi corruttori esigono la copertura per ampliare i loro loschi affari nel traffico di armi e droga, il commissario decide di cambiare posizione ed inizia ad ostacolarli. Per tutta risposta i boss ordinano l’eliminazione dell’anziano Cavalier Serafino Esposito (Vittorio Caprioli), che con le sue denunce ne aveva svelato le attività, poi il padre, e ancora l’amante Sandra (Delia Boccardo). A questo punto il commissario ingaggia una lotta senza quartiere contro la banda, riuscendo ad uccidere Pascal, lasciando il trono a Mazzarri, che ricambia facendo ammazzare il commissario dal suo subalterno, l’agente Garrito, anche lui corrotto.
Fernando Di Leo, con l’incalzante colonna sonora firmata da Luis Bacalov, ambienta la storia in una Milano mostrata tetra e sporca, come teatro di criminali e sbirri sottobraccio. Gli spettacolari inseguimenti automobilistici realizzati su entrambe le sponde del Naviglio sono da antologia cinematografica, capaci di dare parecchi punti ai maestri di genere d’oltreoceano. Il sodalizio artistico tra Di Leo e Luc Merenda continuerà nel 1975, in : “La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori”.
Ma questa è un’altra storia…
Joe Denti