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In mostra volti e uniformi dei “soldatini” di Napoleone

“Il volto del comando. Dal quadro al figurino storico”

Ritratti tridimensionali in miniatura di ufficiali dell’epopea napoleonica. Palazzo Moriggia, Museo del Risorgimento. Fino al 17 febbraio – ingresso gratuito

Per Napoleone la moda era una vera seccatura. Il grande stratega non amava perdere tempo negli aspetti formali della vita: detestava impiegare più di dieci minuti sia per mangiare che per vestirsi. E soprattutto non sopportava gli abiti stretti e aderenti, che gli impedivano di cavalcare comodamente, e mal digeriva le uniformi imbrigliate in cinture, bottoni, lacci, alamari, che non potevano essere indossate senza l’aiuto del maggiordomo da camera. Del resto non è raro imbattersi in film e dipinti in cui il condottiero, coperto da un’anonima redingote con stivali alti da cavalleria, precede una sfilata di ufficiali e soldati abbigliati in modo vistoso e ricercato, talvolta eccentrico e sicuramente scomodo, in netto contrasto con la figura sobria del comandante, che invece si concedeva un solo vezzo: la feluca portata parallela alle spalle per distinguersi dai suoi generali, che invece la indossavano perpendicolare.

Fuori dalle occasioni ufficiali e quando non doveva posare davanti al ritrattista, sotto il celebre cappotto di panno grigio il Bonaparte indossava abiti pratici ed essenziali: un’uniforme blu da colonnello dei granatieri e una verde da colonnello dei cacciatori a cavallo, la stessa con la quale è stato sepolto a sant’Elena.

Non soldatini ma opere d’arte

Possiamo vedere da vicino quelli che oggi chiameremmo gli outfit di Napoleone – e di molti altri ufficiali della sua epoca – nei ricercati figurini in scala 1:30 esposti al Museo del Risorgimento, dove fino al 13 gennaio è in corso la mostra “Il volto del comando. Dal quadro al figurino storico”.

Dimenticate subito il mondo dei soldatini di plastica protagonisti di tante battaglie della vostra infanzia, dalle pose e fattezze ripetitive e con il volto spesso storpiato da una stampante imprecisa. Qui si tratta di vere e proprie opere d’arte, statue in miniatura con i volti e gli abiti così dettagliati che paiono veri, frutto di uno studio approfondito delle uniformi ottocentesche incrociato con i dipinti che ritraggono i protagonisti dei più importanti eserciti e delle più leggendarie battaglie dell’epopea napoleonica, dagli ufficiali della Grande Armée ai rappresentanti degli eserciti avversari.

“I figurini sono la riproduzione tridimensionale dei ritratti ufficiali dell’epoca e permettono quindi di mostrare il lato nascosto del quadro”, spiega Claudio Salsi, direttore dell’Area soprintendenza del Castello, Musei Archeologici e Musei Storici di Milano. “Un interessante nuovo modo di vedere la storia”, suggerisce Marina Rosa, presidente del Centro Documentazione Residenze Reali Lombarde. Un mezzo alternativo e complementare, dunque, per rileggere un periodo storico così importante anche per Milano, capitale della Repubblica Cisalpina, poi della Repubblica Italiana e infine del primo Regno d’Italia, l’unico territorio che Napoleone decide di governare personalmente, considerandolo il più complesso da amministrare tra i “satelliti” della Francia.

Tutti i figurini esposti sono corredati da una didascalia storica che ne racconta ruolo e gesta, e dalla fonte iconografica da cui sono stati tratti i lineamenti del viso e le fattezze dell’uniforme, per un confronto immediato tra il quadro e la statuina. Il visitatore potrà così verificare l’incredibile somiglianza al vero di queste mini-sculture provenienti da collezioni private, realizzate da Piersergio Allevi, profondo conoscitore della storia delle armi e del costume militare, e dipinte da Danilo Cartacci, esperto di pittura in miniatura.

L’ascesa del Bonaparte e i “paparazzi”

Il percorso espositivo illustra l’avventura di Napoleone dall’ascesa al potere con il colpo di stato del 18 Brumaio, fino all’epilogo dopo la rovinosa battaglia di Waterloo.

La grande parata può cominciare: è il 1799, siamo alle Tuileries, i celebri giardini voluti nel Cinquecento da Caterina de Medici sul modello dei parchi della sua Firenze, nel quartiere parigino vicino al Louvre ricco di botteghe, tuileries appunto. Napoleone Primo Console passa in rassegna le truppe della sua Guardia composta dagli amici e sostenitori Murat, Bessieres, Lannes, De Beauharnais (a cui dobbiamo il parco della Villa Reale di Monza, fatto costruire per praticarvi la caccia). I generali indossano vistose uniformi, tipiche della moda stravagante del periodo rivoluzionario francese, caratterizzata dallo sfoggio di grandi piumaggi abbinati ad armi e pellicce esotiche in un tripudio di decori dorati. Il loro look non lascia indifferenti i “paparazzi” dell’epoca: alle cronache e ai pittori non sfuggono infatti la pelisse bordata di piume e il dolman con i galloni d’oro (mantello e giacca militare) indossati dall’amico e fidato aiutante di campo di Napoleone, Michel Duroc, vestito tipicamente alla ussara, né lo shako mirliton (copricapo cilindrico con una fiamma di piume) del colonnello Pierre Pajol, né le selle da cavallo più eccentriche, come quella del generale Alexandre Macdonald ricoperta da una pelliccia di orso bruno o quella in pelle maculata del maresciallo dell’Impero Louis Viesse de Marmont. Né, infine, i fieri purosangue arabi montati dagli ufficiali di alto rango quale vezzo di gran moda dopo la campagna d’Egitto.

I protagonisti milanesi della prima campagna d’Italia

A Milano l’arrivo delle truppe francesi è accolto con grande entusiasmo anche da alcuni esponenti dell’aristocrazia, che sotto il dominio asburgico si interessano alle idee progressiste e liberali del Bonaparte. Tra loro c’è il marchese Alessandro Trivulzio, che aderisce con entusiasmo agli ideali della Francia repubblicana e nel 1796 viene nominato da Napoleone comandante della Guardia Nazionale di Milano. Compare nella mostra con un’uniforme dal taglio francese, la cravatta annodata all’incroyable (stravagante) ma con i nuovi colori nazionali, il verde al posto del blu. Sul capo la parrucca incipriata in contraddittorio omaggio alla moda dei nobili ma anche a quella di Robespierre.

Protagonista della prima campagna napoleonica in Italia è anche l’avvocato milanese Pietro Teuliè, tra i primi ad arruolarsi nella Guardia Nazionale fino a diventare generale e coraggioso combattente su molti fronti. Morto in battaglia nel 1807, ai funerali sparano a salve in suo onore anche le nemiche truppe prussiane. La mostra lo ritrae in trincea durante l’assedio di Kolberg, poco prima di essere ucciso. Anche lui indossa l’uniforme italiana “alla francese” con il verde che sostituisce il blu, i decori in argento invece che nell’oro dell’esercito transalpino, comodi stivali all’inglese al posto dei regolamentari stivali neri da cavallo.

C’è infine il conte Arese Lucini, comandante degli Ussari di Requisizione della città, nel 1805 capitano della Guardia d’Onore che scorta l’imperatore Napoleone durante l’incoronazione a re d’Italia. Veste l’uniforme da ussaro ricostruita proprio grazie ai reperti conservati nel Museo del Risorgimento, e sventola orgoglioso lo stendardo di reparto che riproduce esattamente, per scritte e dimensioni, il rarissimo originale conservato nella stessa sala espositiva.

La prima ambulanza da campo

Sul campo di battaglia le ricercate divise consentono ai medici di riconoscere e salvare per primi gli alti ufficiali. L’assistenza sanitaria nell’esercito francese è una delle meglio organizzate in Europa. Il barone e medico Dominque Larrey, ritratto alla sua scrivania mentre verga un dispaccio, progetta un’ambulanza volante con la quale dare aiuto immediato ai feriti sul campo. Grazie a questa invenzione, alcuni fedelissimi del Bonaparte tornano in servizio dopo aver subito numerose ferite, come il colonnello Pierre Colbert-Chabanais, che parteciperà alle cariche di cavalleria a Waterloo nonostante il braccio lesionato, o il generale Pierre Daumesnil, che difenderà il castello di Vincennes con una protesi di legno al posto della gamba sinistra, gridando ai nemici “Io vi darò Vincennes quando mi ridarete la mia gamba”. O come Abdallah D’Asbounne, capo squadrone dei Mamelucchi della Guardia Imperiale in Egitto, guida e interprete di Napoleone sul suolo africano, ferito ben 12 volte in battaglia e ancora in sella al suo destriero, turbante in testa e babbucce rosse ai pedi.

La moda “alla ussara” e la moglie di Napoleone

Gli abiti alla ussara sono l’ultimo grido del momento, la cui genesi si perde nella notte dei tempi. Il termine, importato dal francese hussard, che identifica il militare della cavalleria leggera, è di origine ungherese e a sua volta deriva dal serbo gusar (pirata), e ancora più indietro dal greco chosarios (brigante). E poiché durante il Consolato i soldati sono visti come eroi e considerati salvatori della patria, assurgendo in breve all’apice della scala sociale, diventano gli influencer dell’epoca. Le loro eclatanti uniformi sono ammirate e imitate non solo in ambito militare ma anche nella vita civile, specialmente per vestire bambini e ragazzi figli di grandi ufficiali.

Le guerre tra Settecento e Ottocento sono l’equivalente della globalizzazione di oggi e così vestire alla ussara diviene una moda transnazionale che contagia i reggimenti napoleonici come gli eserciti nemici. C’è infatti un colbacco di pelo e lo shako mirliton anche sul tavolo del generale di cavalleria austriaco Albert von Neipperg, raffigurato con la tradizionale giacca slim fit ricoperta di alamari, la benda a coprire l’occhio perso nella campagna dei Paesi Bassi. Sarà lui, nel 1821, dopo la morte di Napoleone, a prendere in moglie Maria Luisa d’Austria, già sposa del Bonaparte nel 1810 per suggellare l’alleanza con Vienna in vista della campagna di Russia. Nella stessa vetrina dedicata all’esercito asburgico, compare anche l’Arciduca e arcinemico di Napoleone, Carlo d’Asburgo. Il figurino è ritratto a cavallo nel 1809 durante la battaglia di Aspern-Essling, vicino a Vienna, costata cara a Napoleone, e si ispira al monumento equestre collocato tuttora nella Heldenplatz della capitale austriaca.

L’aristocrazia russa e l’esercito prussiano

Tra le protagoniste dell’epopea napoleonica c’è anche l’aristocrazia russa ai tempi dell’alleanza tra Napoleone e lo zar Alessandro, dopo gli accordi di pace nella città prussiana di Tilsit, e poi durante la campagna di Russia, quando il Bonaparte combatte contro lo zar perdendo 500mila uomini tra morti, dispersi e prigionieri su un esercito di 600mila. Ecco sfilare gli uni accanto agli altri gli ufficiali dell’esercito zarista, tutti appartenenti alla nobiltà, alcuni promossi sul campo per coraggio e valore, altri nei salotti soltanto grazie alle loro blasonate origini. Guardandoli e leggendo i loro nomi sembra di calarsi nelle atmosfere di Guerra e pace: il granduca Pavlovitch Romanov, figlio dello zar ma privo di capacità strategiche, il principe Repnin Volkonskij, comandante della cavalleria fatto prigioniero ad Austerlitz, il conte Michail Sëmenovič Vorontsov che a Borodino attacca i reparti francesi “spada alla mano”, il mondano Vladimirovitch Davydov gravemente ferito a Lipsia, il nobile polacco Ignatievitch Chaplits, che accompagna lo zar agli incontri di Tilsit e per questo viene insignito della Legion d’Onore dal Bonaparte.

La teca relativa all’esercito prussiano, sconfitto nel 1806 a Jena e poi vittorioso su Napoleone sette anni dopo a Lipsia, è invece la sola a vantare la presenza di una figura femminile: la regina di Prussia Luisa Maria Elisabetta, che partecipa spesso a parate e riviste per sostenere il suo esercito, cavalcando all’amazzone e indossando giacca militare e feluca di foggia maschile. Accanto a lei, appoggiato a un albero in atteggiamento pensoso, il poeta e drammaturgo Carl Teodor Körner, famoso per le sue liriche contro la dominazione napoleonica, e Gebhard Leberecht von Blücher, che correrà a Waterloo in aiuto degli inglesi determinando l’esito della battaglia, e infine il generale Johann Freiherr von Thielmann, prima a fianco di Napoleone durante la campagna di Russia, poi comandante della cavalleria prussiana che contribuirà alla disfatta del Bonaparte.

Sul campo di Waterloo in abito da sera

Siamo all’epilogo della parabola napoleonica. Oltre all’indubbia supremazia sui mari, conquistata nelle famose battaglie navali di Abukir e Trafalgar, gli inglesi sono gli unici a creare seri problemi alle mire espansionistiche del Bonaparte. Il 15 giugno 1815, la sera prima dell’inizio della battaglia di Mont Saint Jean, vicino a Waterloo, la duchessa di Richmond, Charlotte, offre un grande ballo a Bruxelles, allora nel Regno Unito dei Paesi Bassi. Vi prendono parte quasi tutti gli alti ufficiali dell’esercito britannico, molti dei quali il giorno seguente saranno costretti ad affrontare il nemico in abito da sera su un terreno fangoso e sotto la pioggia battente.

Allevi e Cartacci realizzano i figurini di due protagonisti dello scontro imminente: il tenente colonnello scozzese John Cameron di Fassiefern mentre arriva al ricevimento verso le undici di sera con in mano il copricapo militare debordante di piume (sarà ferito mortalmente poche ore più tardi guidando il suo reggimento contro Napoleone) e il leggendario sir Arthur Wellesley, duca di Wellington, ritratto invece al sorgere del sole del 16 giugno mentre lascia le danze e monta a cavallo, cannocchiale alla mano, per raggiungere il suo quartier generale a Waterloo e studiare le manovre di avvicinamento delle truppe avverse. Verso mezzanotte, infatti, nel bel mezzo del ricevimento – definito in seguito il ballo più famoso della storia – è giunto un dispaccio che comunica l’avanzata dei francesi in direzione di Bruxelles. Bisogna intervenire. Prima di andersene, il duca di Wellington ha regalato alla figlia della padrona di casa, Georgiana, una statuina che lo ritrae, opera di un artista belga, che forse oggi non avrebbe sfigurato accanto ai “soldatini” della mostra. Sir Wellesley indossa un’uniforme da lui stesso disegnata e sul suo cappello svettano le coccarde con i colori delle nazioni alleate contro il Bonaparte. Trattiene il focoso cavallo del duca il suo stalliere, che indossa i caratteristici indumenti del personale di scuderia: pantaloni abbottonati ai lati (i cosiddetti chiarivari)  e il cappello in pelle, ancora oggi in uso per equipaggiare i fantini delle corse al galoppo. I “cento giorni” di Napoleone volgono al termine.

Dalla Restaurazione alle Cinque Giornate

La mostra “Il volto del comando” occupa le prime tre sale espositive di Palazzo Moriggia, quelle legate ai prodromi del Risorgimento di cui Napoleone ha posto le basi, cacciando gli austriaci da Milano nel 1796 e diffondendo gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità della Rivoluzione francese. Dalla quarta sala inizia infatti un’altra storia, quella della Restaurazione, con il ritorno dei governo asburgico a Milano e la dura repressione delle libertà e dei diritti dei cittadini, che porterà in breve alle barricate delle Cinque Giornate. Il Bonaparte riposa da cinque lustri ma, anche grazie alla mostra dei “soldatini” di Allevi e Cartacci, è come se la sua ombra si aggirasse ancora tra i quadri e i cimeli del Risorgimento milanese sostenendo idealmente gli insorti contro l’ottantaduenne indomito feldmaresciallo Radetzky. A cavallo, naturalmente, con indosso un’anonima redingote grigia e comodi stivali da cavalleria.