Tra risorse infinite e grandi opportunità, in Rete troviamo anche una certa confusione e molto odio. Certamente non era stata creata per questo, anzi. Le intenzioni di chi le diede vita erano quelle di donare al mondo un nuovo, potente strumento per sviluppare la libertà, la condivisione, l’intelligenza collettiva.
Eppure chiunque di noi oggi navighi tra i social network, i blog, i quotidiani di informazione o ovunque ci siano scambi e messaggi tra utenti, deve fare lo slalom tra insulti, minacce, violenze verbali e turpiloqui vari. Parole di odio. Hatespeech appunto, come viene internazionalmente chiamato questo fenomeno. E di parole d’odio ce ne sono di vario genere, nessuna apprezzabile ma di diversa ricaduta e pericolosità per le persone prese di mira e i rapporti sociali in generale.
A richiamare maggiore attenzione sono quelle che hanno più vasta eco. Quindi quelle che appaiono su siti, profili o organi di informazione a larga diffusione; e/o che sono generate da persone che hanno rilievo per la loro notorietà o per il loro ruolo istituzionale. Negli ultimi anni è andata infatti crescendo la “libertà” con la quale ci si esprime online con insulti, minacce o affermazioni d’odio nei confronti degli interlocutori, di gruppi sociali, di etnie differenti, di altri orientamenti sessuali, di diverse confessioni religiose, senza tralasciare gli avversari politici o anche solo quelli di differente fede calcistica. Anche da parte di chi ha un ruolo pubblico o grande visibilità ed influenza sul pubblico. E che per questo motivo dovrebbe porre attenzione a ciò che dice e scrive e a come lo fa.
La manifestazione dell’odio in Rete è molto pericolosa, perché “sdogana” atteggiamenti violenti e minacciosi in tutta la società, nella realtà, non solo sul web. Se l’ambiente è aggressivo e chi lo abita non rispetta le regole; se chi dovrebbe essere d’esempio prende parte agli insulti e alle minacce; se si passa il messaggio che per sostenere le proprie idee o le proprie posizioni si possa anche aggredire verbalmente gli altri; se tutto questo diventa lecito, sono minate le basi di qualsiasi possibile convivenza civile e democratica: minacce e violenza, su Internet come nella vita concreta, impediscono la libera espressione del pensiero e la rivendicazione dei propri diritti.
Il problema delle parole d’odio non nasce certo con l’era digitale, ma è evidente che Internet è divenuto un luogo dove queste trovano un fertile terreno per prosperare. Infatti il fenomeno si lega a doppio filo a quello della libertà di espressione. Là dove è possibile esprimersi senza un controllo preventivo, come in rete, l’affermazione delle proprie convinzioni tracima sovente in aggressione, minaccia, odio appunto. La necessità di preservare una libertà fondamentale come la manifestazione delle proprie idee, deve essere conciliata con la necessità di preservare tutti, minoranze e gruppi sociali deboli compresi, e non cosa semplice. Ne è nato un dibattito che è in continua evoluzione e che coinvolge la politica, il giornalismo, le grandi aziende del web.
Dato che le parole d’odio possono diventare portare anche ad azioni violente, la Comunità Europea si è impegna in un’azione di contrasto che prevede l’intervento giuridico e la rimozione dei commenti d’odio, per quanto possibile. Sono state dunque chiamate in causa le piattaforme digitali più utilizzate, in particolare Facebook, Twitter, YouTube e Microsoft, con le quali è stato sottoscritto un accordo per la rimozione, a seguito di segnalazione, dei contenuti d’odio postati sulle loro pagine. Scelta che è stata criticata da parte di chi ritiene che non si possa demandare ad aziende private il controllo su fenomeni così importanti per la coesione sociale e la convivenza civile. Ma d’altronde, senza il supporto di chi fisicamente gestisce le pagine dei social network, dei video, dei blog online, sarebbe molto difficile un controllo effettivo e sufficientemente tempestivo.
La repressione, di fronte ad un rischio elevato come quello che l’incitamento all’odio costituisce, è necessaria ma non può essere l’unica soluzione. Infatti è troppo impegnativa in termini di risorse impiegate e dipende dalla volontà delle piattaforme (ad esempio Facebook è molto più rapido e attento nell’eliminare le parole d’odio di Twitter, molto lento e non sempre risoluto) e dalla capacità degli stati di far rispettare le regole. Nel contrasto all’hatespeech si è molto impegnata la Germania, di gran lunga il più attento al problema: si arriva alla rimozione del 100% delle parole d’odio segnalate, vista la “minaccia” per le aziende del web che vi si sottraggono di multe fino a 50 milioni di euro.
E’ però opinione condivisa da tutti gli attori coinvolti che il monitoraggio, le multe, le rimozioni, le condanne, possono arginare, ma alla lunga possono fare poco per risolvere il problema. La via maestra resta quella dell’educazione. Solo insegnando fin dalla scuola l’uso consapevole dei media e della comunicazione digitale, mettendole in connessione con i diritti e i doveri civili, con la coesione sociale e il rispetto del prossimo, è possibile dar forma ad un pubblico nuovo, cosciente del proprio ruolo e rispettoso delle leggi e soprattutto degli altri.
La repressione può essere indispensabile di fronte alle minacce immediate, ma il progresso e il cambiamento in meglio passano solo attraverso la crescita della consapevolezza che l’educazione permette.