L’approfondimento: il lavoro negli anni ’60, e oggi?

Di sicuro avrete, nella vostra quotidianità, conosciuto un lavoratore. Un dipendente, un salariato, un operaio, un tecnico, un impiegato, un artigiano, un contadino. E dall’altro canto, proprio perché stanno dalla parte opposta (come spiegato nel Devoto Oli) avrete incontrato un datore di lavoro, un imprenditore, un padrone.
Orbene, a comporne la complessità, il lavoro ha questi soggetti cui fare riferimento.
Siccome dovremmo stilare “un pezzo sul lavoro negli anni ’60” diventa molto difficile metterli insieme, in un unico destino. Precisiamo: non è nostra intenzione attardarci in distinzioni di classe. Esse sono talmente evidenti e consacrate da un’infinita pubblicistica. Ci limitiamo a raccontare la sponda riguardante su come allora si svolgeva “il lavoro”. Restituendola (solo in parte, s’intende) in modo da combinare dei flash su cosa rappresentasse avere un posto fisso. Perché non si perda il significato del valicare quelle soglie, fossero di un ufficio, di un’officina d’artigiano, di una fabbrica dalle grande dimensioni. Non dobbiamo, non possiamo rinunciare alla memoria. Ci ridurremo a persone dai corpi, magari ben torniti dal lifting, tuttavia sclerotizzati e in preda alla pura, schizofrenica, gestione dell’esistente. Perciò, va un grazie a questo giornale che ci consente di recuperare qualcosa di un passato, niente affatto remoto.

C’è, da sempre, “un prima”. In tutta probabilità ci potrebbe stare, “un dopo”. Ciò che ci pervade è, comunque, “un adesso”. Cioè il presente. Al quale abdichiamo e non preserviamo la memoria. Come fu per l’oblio che colpì i caduti nelle guerre lontane. Non più persone, con una loro storia. Soggettiva. Storie, considerate infime, poiché si enucleavano solamente nei loro fogli matricolari a volte anche con il numero abraso dal tempo e non più leggibile. Impersonali, fino al punto da considerare questi morti come “ignoti” salvo per farne un culto, vagheggiando la grandezza della Nazione. I loro nomi, impressi nelle lapidi e nei monumenti, sono senza volto e senza storia. Accade per il semplice motivo che si sono estinti coloro che raccontavano delle loro singole vite. Nei libri restano le date delle battaglie e i nomi dei generali, non quelli del fante caduto sul Carso. Non dovrebbe accadere per quelle persone che hanno lavorato e molto duramente.

Prendiamo una vita qualunque. Quella di un quattordicenne appena uscito dalle medie e impossibilitato, per questioni di famiglia, ad accedere al liceo. Costui, nato nella prima metà del secolo scorso, entrava in fabbrica e faceva “l’apprendista”. Solo dopo pochi giorni, eseguiva le stesse operazioni di un operaio molto più anziano. Non ci voleva molto per imparare, specie lungo le catene di montaggio, a perforare un lamierino con un trapano. Vigeva allora il cottimo (da cui, per legge, l’apprendista era escluso) ossia una forma di retribuzione aggiuntiva allo stipendio in base alla quantità di manufatti prodotti. Più se ne faceva, più si guadagnava.

Esemplare la scena di “La classe operaia va in paradiso” Elio Petri, 1971, dove l’operaio, Lulù (Gian Maria Volontè) sfacchina davanti a un tornio, celebrando i suoi abbondanti numeri con la frase “…un pezzo, un culo…”.

Il nostro quattodicenne, aveva un destino diverso, meno alienante, rispetto a Lulù. Cominciava a non considerare solo le esigenze della macchina che la direzione gli aveva affidato. Avviava una riflessione, del tipo: non sarebbe meglio passare dal cottimo a una retribuzione più equa e rispettosa dei tempi di vita sociale? Non voleva tornare a casa, spossato (come capitava a suo padre) e addormentarsi sul tavolo dopo aver cenato. Negli anni che stiamo narrando si aperse uno spiraglio. Fu difficile convincere gli stessi operai che la strada migliore da seguire fosse quella di riformare la vita sui posti di lavoro. In pochi, inizialmente, volevano (meglio dire, non potevano) rinunciare a qualche soldo in più in cambio delle riduzioni dell’orario, dei turni meno pesanti. Ciononostante: cominciò a farsi strada l’idea, fermi restando i doveri, d’ampliare i diritti. C’era l’orgoglio di appartenere a una comunità, cioè la fabbrica, al marchio per cui lavoravano, ma non più a qualsiasi prezzo.

Mi concedo un ricordo. Lavoravo in una multinazionale americana. Si sviluppavano film amatoriali e fotografie. Tutto passava per l’inglese e ai dipendenti veniva concesso di partecipare ai corsi per imparare quella lingua. Fui tra i pochi ad aderirvi. Molti dei miei compagni di lavoro scandivano al loro giornata tra: uno “start up” e uno “shut down”; dentro una “dark room” e seduti a un “feeder”. Le cucitrici venivano chiamate “gun” e i capi “senior” e “supervisor”. Gli operai: “first-class film operator”.
A nessuno importava cosa significassero quelle parole. Tuttavia, poi, scopersero che, alfabetizzandosi, potevano anche contendere sui tempi di esecuzione, sulla permanenza in camera buia. Cercando di essere all’altezza dei dirigenti USA si conquistarono cose importanti per migliorare la propria vita lavorativa. Si avanzava così e di pari passo avanzava l’economia.

Negli attuali tempi di profonda crisi, non vanno scordati (anzi, andrebbero recuperati) i momenti storici della piena occupazione.
Ho frequentato coetanei che pur non lavorando in fabbrica sono diventati bravi artigiani. Perfetti elletricisti. Con un mestire da spendere anche da piccoli imprenditori di sè medesimi. La “comunità” della fabbrica, comunque consacrava a un ruolo, a fronte del quale anche il singolo operaio (nel dettaglio) diventava funzionale (nell’insieme) a una società, facendola avanzare ben oltre le gerarchie esistenti dentro i cancelli. Cancelli che avrebbero, ben volentieri, evitato di presidiare come sarebbe, purtroppo, accaduto poi.

I nostri ragazzi dovrebbero sapere e distillare quanto vedono in televisione. La gente, se viene schiacciata dal bisogno (quando va bene) o dalle presse (quando va male) non è per fatalità o ignavia. Gli stessi ragazzi, dovrebbero sapere dell’esistenza, nel mondo del lavoro, di altri soggetti dal comportamento non sempre commendevole.

Chi è immerso “nell’oggi” potrebbe obiettare su molti punti, contrapponendo e mettendo in vetrina i cambiamenti avvenuti, solo il mese prima. Ma per quanti cellulari di ultima generazione si possano esibire a nessuno si può concedere di porre “nell’oblio” coloro che fabbricano quei cellulari. Non sarebbe giusto. Poiché c’è sempre “un prima” e “un dopo” e non è consigliabile spendere la propria vita solo nel presente.

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