Come paragonare la Milano degli anni degli anni Cinquanta o Sessanta (per intenderci gli anni del boom economico) a quella attuale?
Un buon giornalista, amante delle cifre e delle statistiche posizionerebbe, in bella vista, le tabelle e i grafici. Una modalità di sicuro impatto e immediata presa. Un altro bravo collega porrebbe, in sequenza, i nomi dei sindaci elencandone le opere, realizzate con il piglio dei probi amministratori. Un altro ancora sarebbe in grado di sezionare, mirabilmente, l’opera dei grandi industriali, dei principi della Borsa, dei creatori delle grandi marche o della lungimiranza dei grandi editori.
Sarebbero (sono) approcci assai utili per la comprensione del passato e del presente. Se non altro, attraverso un’efficace figurazione, linearmente segmentata, di storici frammenti e della più recente attualità. Noi vorremmo, viceversa, raccontarvi delle persone (in carne e ossa) che hanno caratterizzato i due periodi. Ci sforzeremo di farlo. Lo faremo parlando di quelle genti che hanno contribuito, nel loro microcosmo quotidiano, a fare Milano e farla diventare ancora più grande, pur non abitandovi ma praticandola per moltissime ore delle loro giornate e per tutti gli anni della propria vita.
Prendiamo gli operai, poiché Milano è stata operaia e produttrice di grande ricchezza. Negli anni immediatamente successivi alla II Guerra Mondiale, i mastodontici apparati industriali, con sedi nel territorio cittadino e oltre i suoi immediati confini, hanno accolto, in tutti i settori, migliaia di lavoratori. Essi provenivano da tutto il Paese. Un mare. Il cui flusso è risultato oltremodo benefico per l’economia e per la cultura.
Non crediamo, con queste poche note, di esaudire la complessità di un’analisi, per la quale necessiterebbero molte pagine anche al più dotto dei saggisti. Non è questa la pretesa. Proviamo a farlo descrivendo come cresceva, attorno alle storiche mura della Cerchia, una città composta da nuovi cittadini.
Se andassimo a catalogarli per i lavori da loro svolti prima di arrivare a Milano e dintorni (lavori, badate bene e non mestieri) ci troveremmo di fronte, nella gran parte, ai manovali, ai braccianti, ai carrettieri, se non ai badilanti o agli avventizi. Pertanto una figurazione ante litteram della flessibilità della mano d’opera presente nei loro luoghi d’origine. Luoghi di campagna. Luoghi di endemica disoccupazione, laddove il flusso del lavoro veniva scandito dalle stagioni e non dal posto fisso.
Negli anni in questione, nelle immediate periferie della città e nei paesi limitrofi, crescevano case e quartieri con un’intensità mai veduta prima. In gran parte, le abitazioni venivano costruite nei comuni di quella che adesso chiamiamo Area Metropolitana e in assenza di un qualsivoglia strumento urbanistico. Pertanto in molti quartieri si contavano a decine le abitazioni, elevate al massimo di due piani, senza che tra un perimetro e l’altro vi fosse soluzione di continuità. Venivano costruite dalle famiglie di immigrati, dopo aver acquistato un pezzo di terra a prezzo assai basso.
Lontanissimi da ogni idea speculativa (anzi con spirito da cowboy urbano) le case crescevano con il quotidiano lavoro dei figli e dei padri, delle madri e delle sorelle. Chi faceva il primo turno in fabbrica, si accollava il pomeriggio da muratore e così accadeva, al mattino, per chi doveva timbrare per il secondo turno. Costava fatica ma si lavorava, perché il lavoro diventava gratificante in quanto valore e dignità del singolo e della famiglia. Non tutti trovavano occupazione in fabbrica. C’era il settore del commercio, le catene dei negozi e le conduzioni più piccole, le tipografie di grandi e medie dimensioni, le officine e gli studi dei professionisti.
Parlavamo delle grosse industrie. I dirigenti, i proprietari sono di già sulle pagine di storia e vi occupano il posto d’onore. Tuttavia, le persone che vi operavano meritano una citazione per capire come sia stato possibile, anche grazie a loro, di realizzare il boom.
Potete solo immaginare la gioia, noi l’abbiamo provata, d’assistere all’uscita da una grande fabbrica: la moltitudine di persone riversate verso i depositi per inforcare le biciclette. Riconoscere, tra quelle figure, il proprio padre, il fratello, il marito e correre loro incontro. Un gesto così spontaneo assumeva in sé, simbolicamente, un ansimante anelito di vita. Verso un futuro migliore. Sono parole grosse? Un rigurgito passatista? Non ne siamo convinti. In virtù del sacrificio dei loro genitori (sradicati obtorto collo dalla terra natia) molti giovanissimi uscirono dalle angustie del paesello per approdare a una dimensione nazionale ed europea. Non avrebbero potuto godersi, il primo giradischi, i primi televisori in casa, i frigoriferi, la prima motoretta. Soprattutto, non avrebbero potuto studiare. La gente lavorava e consumava. Cresceva, culturalmente e socialmente. Un film in prima visione, un quotidiano sotto il braccio, una spettacolo musicale, un concerto rock, la sala da ballo, il calcio delle grandi squadre.
Il pregio della grande Milano di oggi è di aver mantenuto, nonostante passaggi cruenti e ferite lancinanti, la fisionomia flessibile e costantemente modellata dalle novità. Nei primi anni ’60, viaggiare sulla Linea Rossa della metropolitana ci richiamava al sogno americano. Adesso, facciamo quasi fatica e confondiamo i colori delle linee con le fermate, segno di una fluida e accresciuta mobilità che ci consente di andare, da un capo all’altro, solo utilizzando i mezzi. La città è stata sempre in progresso, come i suoi abitanti. I vecchi e i nuovi.
Se ricordassimo l’annerita facciata del Duomo, del 1961, lo faremmo senza nostalgia, poiché siamo felici di vederla nel suo splendore originale. Se contassimo gli alberi lungo i viali, sommandoli a quelli cresciuti nei grandi parchi (dei quartieri e delle periferie) e li mettessimo in un unico luogo avremmo l’equivalente di una grande foresta. Il moltiplicarsi del verde è progredito, cosa di non poco conto, con l’evolversi della dimensione di una città che vanta una skyline degna delle più rinomate metropoli europee. Adesso, come allora, contano le persone. Gente, operatori sociali, imprenditori i quali, nonostante tutto, sono ancora capaci d’accogliere. Speriamo tanto nei giovani. Nei loro studi, nella diffusa fantasia e creatività, nella caparbietà di costruirsi un futuro, pur in tempi così avventurati.