Il 26 novembre del 2010 in un campo di Chignolo d’Isola in provincia di Bergamo, una zona di capannoni e sterpaglie, veniva ritrovato il corpo di una ragazzina. Si trattava di Yara Gambirasio che era scomparsa tre mesi prima.
Il corpo presentava segni di un trauma cranico e diverse ferite che, secondo gli inquirenti, avevano provocato la morte poco dopoaver subìto questa brutale aggressione. Yara era morta sola perché nessuno oltre al suo assassino sapeva che si trovava lì, per il sopraggiungere della debolezza e del freddo.
Si infrangevano così le speranze dei genitori che non si erano mai dati pace per quella scomparsa senza motivo. Yara era un’atleta di ginnastica artistica, una “farfalla” come vengono chiamate le atlete di questo sport. Quel pomeriggio, intorno alle 17:00 era uscita per andare ad allenarsi nella palestra vicino a casa. Pochi giorni dopo, infatti, avrebbe partecipato a una competizione. Finito l’allenamento, intorno alle 19:00, era quindi uscita senza però fare mai ritorno a casa.
La Procura aprì un fascicolo per sequestro di persona e partirono le ricerche. Furono impiegati volontari e cani molecolari dal momento che le telecamere di sorveglianza intorno alla palestra erano fuori uso.
Ci furono segnalazioni false e depistaggi fino a quando non si identificò il passaggio, a più riprese nelle vicinanze della palestra di un furgone bianco, dei tipi usati nei cantieri edili.
A dicembre del 2010, a bordo di una nave diretta a Tangeri, viene fermato e poi incarcerato un operaio di origine marocchina Mohammed Fikri, che lavorava in un cantiere edile di Mapello. Sembra che i cani molecolari avessero trovato delle tracce compatibili con la scomparsa di Yara.
Nel caso finì anche un’intercettazione telefonica in cui Fikri, parlando in arabo sembrava chiedere perdono per qualcosa.
La traduzione si rivelò poi sbagliata, l’uomo era del tutto estraneo alla vicenda e per questo la sua posizione fu archiviata.
Nel frattempo però, in seguito al ritrovamento del corpo, i Ris riuscirono a esaminare anche gli abiti di Yara. Il risultato furono tracce di un DNA maschile, fatto che permisero di accertare anche la violenza sessuale. Non solo. C’erano anche fibre compatibili con i sedili di un’auto e microparticelle metalliche riconducibili, di nuovo, a un cantiere edile.
Mancava però l’uomo a cui apparteneva quel Dna che venne quindi associato a Ignoto 1.
Il campione fu anche spedito negli Stati Uniti vista la competenza della Polizia scientifica locale in materia di indagini sul DNA. Il risultato di questa collaborazione fu la descrizione di un individuo con gli occhi chiari.
Per arrivare all’identificazione del colpevole, però, servirono altri 4 lunghi anni ma la pista, almeno, era quella dell’esame del DNA per ogni potenziale sospetto.
Questo procedimento, applicato a circa 500 giovani che frequentavano una discoteca non lontano dal luogo di ritrovamento del corpo di Yara, avevano quindi portato a un profilo genetico che presenta tratti in comune con Ignoto 1. Apparteneva a Damiano Guerinoni che viveva a Gorno in Valseriana. Sembrava la pista giusta.
Partì quindi l’indagine del DNA su tutta la sua famiglia fino a riesumare il corpo del padre Giuseppe, deceduto anni prima, di professione autista di bus. Il suo, di profilo genetico, era ancora più simile a quello di Ignoto 1.
Per la ricostruzione finale del profilo, però, mancava ancora la parte di DNA che si eredita dalla madre e proprio a questo punto della vicenda si creò una storia nella storia.
La moglie di Giuseppe e madre di Damiano non era quella parte mancante. Si iniziò così a scavare nella vita sentimentale dell’uomo fino a che non si scoprì una relazione extra coniugale con una donna, Ester Arzuffi a sua volta sposata e madre di due gemelli. Si decise quindi di sottoporre al test lei e i suoi figli.
Per l’indagine fu la svolta. Il Dna di uno di loro, Massimo Giuseppe Bossetti, carpentiere di 45 anni era identico a Ignoto 1.
L’uomo fu arrestato mentre tentava di fuggire dal cantiere dove lavorava alla vista della Polizia. Per lui l’accusa fu di omicidio volontario aggravato. Seguirono il processo e i vari gradi di giudizio in cui si scontrarono la richiesta di ergastolo e la professione di innocenza che l’uomo sostiene tutt’ora nonostante il pronunciamento finale della Cassazione, nell’ottobre del 2018, che ha confermato la condanna.
Bossetti sconta la pena nel carcere di Bollate.
Per i genitori di Yara era arrivato il conforto di una sentenza giudiziaria anche se il dolore che hanno vissuto gli ha dato la forza di guardare oltre, verso i giovani che hanno la stessa passione per lo sport di Yara.
Nel 2015 hanno dato vita a una onlus che sostiene con progetti specifici i ragazzi con difficoltà economiche nella loro crescita in campo sportivo, artistico e musicale. Sono già stati finanziati circa 85 progetti grazie alle donazioni di chi, in questi, anni non ha dimenticato Yara ed è andato oltre la sua brutale scomparsa.
Nei giorni scorsi, nell’imminenza di questo anniversario, il padre di Yara, Mauro Gambirasio ha detto all’Eco di Bergamo: “Saremo felici quando nelle ricerche di Google con il nome di Yara non compariranno articoli di cronaca nera ma quelli sulla nostra associazione”.