Giocare in proprio

Nei commenti di una partita di calcio assai raramente avrete sentito affermare: Difendere la sconfitta. Eppure è una delle considerazioni tattiche più sane che si possano sostenere. Ciò è possibile se solo si ha una precisa concezione di un gioco che sia il proprio modo di giocare.

Qui vorremmo inserirci nel dibattito su come sia più produttivo sistemare sul campo una squadra di calcio e su quale filosofia (parola grossa) la si voglia orientare. Pragmaticamente o puntando all’aggressività?

Ai più le due concezioni suggerirebbero:da un lato, la difesa e il contropiede; dall’altro l’attacco, sistematico, verso l’area avversaria.

Sono posizioni che in queste settimane si stanno contrapponendo, coinvolgendo gli addetti ai lavori, i giornalisti, gli allenatori, i commentatori tv e i tifosi. Anche se, a dire il vero, questi ultimi si auto-confinano nelle pieghe del complotto pro e contro la propria squadra a causa di un rigore non dato o (per più acculturati) nel definire la mentalità il cui difetto di…si accredita sempre alla compagine a loro avversa, collegandolo a una specifica manifestazione. Ovvero, se la Juve non vince la Champions è perché non ne possiede affatto.

Restiamo su questo, sulla mentalità. Ritenendo che ciò renda esplicito un solo modo di concepire il gioco: bello, aggressivo, spettacolare e di conseguenza (solo così!) vincente. Al bando i tatticismi.

Cosa significhi applicare al calcio un’unica forma mentis che non contempli anche una diversa visione, un differente modo di giudicare, ci risulta oltremodo complicato da comprendere, nonostante le nostre pratiche (non infime, lo assicuriamo) e le nostre conoscenze.

Intanto, credo che tutti concordino che il calcio è sempre, strutturalmente, contropiede: si conquista palla e la si gioca, secondo convenienza. Sia che la sfera divenga in possesso nella propria metà campo o al limite dell’area del portiere avversario. In ogni caso è contropiede: prendo e vado.

Probabilmente la storia del calcio ci fornisce qualche esempio. Forse non completamente illuminante, ma potrebbe aiutarci a capire.

Nel 1950, finale del Campionato del Mondo. Al Brasile, padrone di casa, non mancavano le motivazioni e neppure la mentalità. Giocava davanti a 90mila suoi connazionali e contava su, Ademir, il capocannoniere del torneo. Aveva di fronte l’Uruguay, un paese di pochi milioni d’abitanti ma calcisticamente molto evoluto. I brasiliani, stazionando per un tempo intero nella metà campo della Celeste, andarono in vantaggio, tra il tripudio. Cosa avrebbe fatto un avversario normale: si sarebbe buttato all’attacco per pareggiare. Tra la sorpresa generale, l’Uruguay continuò nella sua tattica attendista. Sissignori: difendeva la sconfitta. Certo non mancava di giocatori di gran classe: Ghiggia, Schiaffino, Varela, ma ciò non assicurava un bel nulla. Potevano perderla, comunque. Se giocata venti altre volte, probabilmente, sarebbe successo. Tuttavia, in quella gara, non si privarono della certezza nel proprio gioco. Pareggiarono e vinsero, ammutolendo il Maracanà e il mondo intero. Compiendo un salto di oltre trent’anni ricorderemo il famoso Brasile-Italia del 1982, nel mondiale spagnolo. Nessuno avrebbe scommesso sul passaggio degli azzurri di Bearzot. Nel turno precedente avevano battuto l’Argentina (campione uscente, con tanto di giovane Maradona in squadra) e ciò poteva appagare l’opinione pubblica italiana. I brasiliani sembravano un rullo compressore, giocavano quasi senza portiere, un solo difensore centrale e con uno stuolo di terzini fluidificanti e mediani d’attacco. Le punte rispondevano a nomi del calibro di Zico, Socrates, Eder. Passato il girone, alla media di tre goal a partita, ai verde-oro bastava un pareggio per andare in semifinale. E possedevano la famosa mentalità. Attaccarono a testa bassa e Paolo Rossi li infilò, brutalmente. Finì 3-2 per noi e poi vincemmo il mondiale. Cos’era successo? Noi avevamo un buon impianto di gioco e una diversa filosofia. Oltre che giocatori di livello mondiale. Vogliamo dimenticare Zoff, Scirea, Bruno Conti, Antognoni, Tardelli, Cabrini? Cionondimeno, ricordo che quel Brasile ci avrebbe battuto nove volte su dieci, se solo fosse ricorso alla soluzione di difendere il pareggio, mettendo un difensore (o arretrando Junior, quello del Toro e del Pescara) accanto allo spaesato centrale di cui sopra.

Il calcio è un mistero glorioso e al tempo stesso di assai semplice svelamento se non si scade nel dogma. Il mistero sta nelle varianti e negli episodi, lo svelamento avviene nel fare di necessità virtù. Cioè adattare il proprio gioco agli interpreti.

Il grande Arrigo Sacchi, riuscì ad incantare il mondo rovesciando questo concetto. Fabio Capello, con quasi gli stessi calciatori lo capovolse nuovamente. Entrambi sono considerati tra i più vincenti nella storia. Non esiste una scienza esatta, soprattutto se applicata al calcio. Ci dobbiamo accontentare. Altrimenti saremmo costretti a biasimare solo gli errori di questo o di quello. Non vogliamo giungere al paradosso di Annibale Frossi, il quale asseriva che la partita perfetta finisce sempre zero a zero. Sappiamo che bisogna portare la palla in avanti, per fare goal. Tuttavia bisogna saper gestire la partita. In questo caso l’allenatore conta assai poco. Sono i giocatori che lo devono fare. Giovanni Trapattoni, parlandoci della Juventus del 1983, ci disse: ”Cosa volete che racconti ai miei. Ho otto campioni del mondo, più Platini e Boniek? Mi metto a parlare di tattica? Cerco di tenerli buoni e non farli litigare tra loro”. Ricordiamo che quella Juve perse la Coppa dei Campioni, contro l’Amburgo.

Gigi Maifredi, gran campione del “tutti all’attacco” dopo aver perso la Supercoppa (di goleada) con il Napoli, affermò: “Eppure abbiamo giocato sempre noi, con il 75% di possesso palla…

Secondo voi, Valverde (per stare ad un caso recentissimo)avrebbe detto ai suoi del Barcellona di non guardare l’avversario che batteva il corner, così da subire la rete dell’eliminazione? Non scherziamo. Possiamo dire che il calcio è sempre bello. Sono belli i fraseggi, sono estasianti le reiterate triangolazioni, i dribbling, le rovesciate. E’ bello anche ricordare, quando Luisito Suarez si faceva consegnare la palla al limite della propria area da Armando Picchi e poi lanciava lungo e preciso su Jair il quale, dal fondo, crossava in corsa sul sopraggiungere di Sandro Mazzola: goal. Spettacolo. Lo stesso faceva Rivera, nel Milan di Rocco. Simile a un gruppo musicale, una squadra necessita di una buona base ritmica, del basso, della batteria. Poi ognuno si sceglie il genere. Potrebbe essere uno sfrenato rock&roll, oppure un modesto slow. Si tratta di farlo al meglio, con i musicisti che si hanno. Difficile, specie per i più giovani, non seguire le mode. Ciononostante bisogna ricordare che le note sono sempre sette e le cover imperversano.

Jurgen Klopp, ammirato finalista di Champions con il Liverpool ed eversore del Barcellona, qualche giorno fa ha dichiarato: “Se fossi stato un bambino, al tempo del tiki-taka spagnolo, credo che non avrei amato il calcio e mi sarei dato al tennis”.

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