Joan as a police woman al castello sforzesco

Tappa italiana per Joan Wasser, nota come Joan as Police Woman (26 luglio 1970), cantautrice, violinista e chitarrista statunitense, che nell’occasione presenterà il suo ultimo lavoro “Damned Devotion”.

Ha iniziato la sua carriera suonando il violino nei Dambuilders per poi collaborare dal vivo e in studio con diversi artisti tra cui Lou Reed e  Sheryl Crow.

Verso la fine degli anni novanta Joan inizia ad esplorare percorsi musicali differenti e non limitati al solo utilizzo del violino: aggiungendo parti di chitarra e tastiera nelle registrazioni dei suoi brani.  Inizia così a sviluppare anche un suo personalissimo stile che la porta a farsi un nome nell’ambito del panorama indie rock.

Nonostante il suo talento l’artista stessa  ha più volte raccontato come in tutte le sue esperienze musicali non abbia mai avuto il coraggio di avvicinarsi ad un mocrofono: “Ero circondata da voci meravigliose, non ne avrei mai avuto il coraggio: c’era troppo dolore in me, pensavo che se avessi tentato di cantare piuttosto che una voce sarebbe venuto fuori un urlo”.

Un lutto alla fine degli anni Novanta rivoluziona la sua vita: “La morte del mio fidanzato Jeff Buckley mi gettò in una disperazione che mi sembrava non avesse cura. E’ stato proprio a causa di quel dolore che ho poi sentito il bisogno di trovare la mia voce, perché il mio violino e la musica che suonavo con gli altri non riuscivano ad esprimerlo”.

Da allora sono passati vent’anni fatti di successi e di sei album, l’ultimo dei quali, Damned Devotion,  è il più apprezzato dalla critica.

Lei lo definisce il suo disco “più scuro e riflessivo”. “Finora ho sempre scritto prima i miei brani, li ho sottoposti ai miei musicisti, li ho arrangiati con loro, siamo andati in studio a registrarli. Questo disco è stato invece per gran parte scritto e registrato a casa mia. E questo spiega anche il motivo per cui la sua musica è così notturna, privata, casalinga. L’ho vissuta nella bolla acustica delle cuffie. A New York vivo in un appartamento e dopo le otto di sera non posso più suonare il pianoforte senza infastidire i vicini. Questo mi ha spinto a scrivere sul computer, a cambiare stile, ha influenzato molto il mio nuovo album”.

“Damned Devotion” è comunque un album coraggioso, un lavoro complesso, sofferto, difficile da cogliere in tutte le sue sfumature in un solo ascolto.

Nelle dodici tracce prevale una spudoratezza che sembrava smarrita: “The Silence” è ad esempio una delle più ambiziose creazioni mai affrontate dalla cantante, un mantra funky-soul sulle sofferenze del cuore, dove trova spazio una citazione di Leonard Cohen che più di ogni altra frase svela l’essenza dell’autrice: mi hanno detto che le ferite sono dove entra la luce.
Per tutto l’album scrittura, arrangiamenti e interpretazioni vocali vanno in un’unica direzione, ovvero verso un oscuro soul futurista che mette in musica la complessa sfera dei sentimenti contemporanei. In questo imperturbabile viaggio c’è comunque un’unica oasi, quella dedicata alla morte del padre: una ballata candida e naif, “What Was It Like”, piccola concessione alla fragilità, in delizioso contrasto con il tono imponente del resto dell’album.

 

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