Il Vescovo Delpini: Milano città del rumore

Dalla città più che un cantico di esultanza si ascolta il rumore. Il rumore fastidioso del traffico, lo stridio degli attriti, il ronzio degli apparecchi per rendere confortevole la vita, il baccano delle macchine che scavano e percuotono la terra. La città moderna non può produrre il cantico di esultanza, produce piuttosto dissonanze e disturbo, produce rumore. O città, mia città, città del rumore!
Dall’alveare abitato più che un cantico di esultanza si ascoltano grida. Grida di rabbia, insulti di violenza, grida che invocano aiuto. Il grido dà voce al dolore, esplode nella ribellione, è come lo sfogo incontenibile della ferita che strazia la carne o trafigge l’anima. Nella strada della città si ascoltano grida, sulle scale dei condomini, dalle finestre aperte delle solitudini, dallo sfidarsi dei violenti giungono grida e fanno paura. O città, mia città, città delle grida!”
In questo passaggio all’inizio della sua omelia, il vescovo di Milano Mario Delpini così mette in risalto quello che ritiene uno dei grandi limiti nella vita cittadina: il rumore. Sia reale che metaforico, il rumore della città nelle sue parole è il segno evidente dell’inquietudine e della violenza che nascono dalla sostituzione di valori reali con valori fittizi, di vite condotte senza uno scopo, un significato, ma guidate solo da una generica, ambigua e pericolosa idea di libertà personale. In un altro opassaggio sottolinea come il rumore renda impossibile il pensiero:
“Nella vita disabitata di chi è solo, nella folla informe di chi si accalca nei locali del tempo sprecato non si ascolta il cantico dell’esultanza, si ascolta la musica assordante dell’evasione. La musica assordante, la parola gridata, il suono provocatorio si impone, come una distrazione là dove non si vuole, non si po’ pensare. La musica assordante aggrega e insieme impedisce l’incontro, la musica sentimentale spreme il sentimento nell’emozione precaria, la musica passatempo incoraggia il fantasticare per evadere da troppa noia, da troppa solitudine. O città, mia città, città dell’evasione!
Infine il richiamo proprio ai defunti, a coloro ai quali si rende omaggio il 1 novembre, e alla rimozione pericolosa dell’idea di morte dalle nostre società, mentre tale pensiero potrebbe seriamente aiutare a vivere:
“Forse il ricordo dei morti potrebbe propiziare il silenzio. Finalmente il silenzio!
Qui dove il silenzio avvolge le storie e le persone può succedere che si imponga la rassegnazione che si inchina alla prepotenza del nulla e alla tirannia della morte. Il pensiero si smarrisce, la parola si confonde, i sentimenti si incupiscono per l’irrimediabile assenza. Allora per non affrontare l’enigma incomprensibile, ci si convince alle commemorazioni, alla celebrazione delle imprese gloriose e delle persone famose. La commemorazione, la celebrazione dei trapassati può essere una scuola di sapienza, di quella sapienza che aiuta a vivere, ma non a morire”.

 

 

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