Teatro alla Scala, 7 dicembre 2020: una Prima che resterà nella memoria

E alla fine le stelle hanno brillato. Per una volta dallo schermo di una televisione o di un tablet, per una volta senza pubblico, per una volta con l’orchestra che ha occupato la platea del Teatro alla Scala con il maestro Riccardo Chailly che dava le spalle al palco e agli artisti.

Voleva essere un messaggio di speranza, ispirato dall’idea che l’arte e la bellezza ci salveranno.
A mio modesto parere lo è stato perché l’esecuzione di arie d’opera, balletto e intermezzi musicali e di prosa con citazioni di Cesare Pavese ed Eugenio Montale ti portava via dal qui e ora e ti faceva assaporare la possibilità di un ritorno alla nostra vita normale.

Davide Livermore ha saputo far vivere le scene dei diversi brani, trasportando l’opera che già di per sé parla un linguaggio universale in uno scenario moderno in cui si sono armoniosamente susseguite speranze d’amore – L’Elisir d’amore di Donizetti -, l’amore tradito – Madama Butterfly -, la gelosia – Otello – , l’amore di patria – Andrea Chénier – , l’amicizia capace di dare la vita per l’altro – il Don Carlo.

Passando per le atmosfere spagnoleggianti della Carmen di rosso vestita della soprano Marianne Crebassa per poi passare al Giappone di Madama Butterlfy con la soprano Kristine Opolais e alla Roma di Fellini evocata da una spider che si leva sui tetti di Roma per l’aria che Rosa Feola ha cantato dal Don Pasquale di Donizetti. E poi arriva l’aria d’opera che spesso ha punteggiato i mesi bui del lockdown, quel Nessun dorma – forse meglio conosciuta come Vincerò – da Turandot intonata da un emozionante Piotr Beczala che nel suo cantare pronuncia le parole “Dilegua o notte, tramontate stelle, all’alba vincerò” accompagnate da quell’acuto che arriva dritto al cuore.

Nell’immaginario di molti, forse, il pensiero è andato al volto e alla voce potente di Luciano Pavarotti che la intonava sullo scenario delle Terme di Caracalla a conclusione dei nostri Mondiali di calcio, quelli di Italia ’90.
L’esibizione della Scala di ieri sera, è stata degna del nostro maestro.

A rendere più suggestiva l’atmosfera, la scelta di usare una coreografia in cui si rincorrevano immagini di galassie lontane con l’alternanza del buio e della luce.

Perché come ha ricordato l’attore Massimo Popolizio che per anni ha condiviso il palco con Luca Ronconi: “L’opera e il cinema sono due momenti in cui lo spettatore può abbandonarsi alla sua incredulità e lasciarsi andare alla meraviglia”.

E comunque di virtuale non c’é stata solo la serata senza pubblico.
A parte le due parentesi di balletto vero nel senso di danzato da coppie di ballerini sulle musiche di Ciaikovsij e Verdi, l’étoile Roberto Bolle ha duettato con un fascio di luci laser. Di nuovo luce che vince sul buio.

L’immagine che più mi ha colpito, però, è stata un bianco e nero. Riproduceva il maestro Arturo Toscanini, di spalle, che dirige una Prima della Scala. Non si tratta di una prima qualsiasi. La foto è stata scattata l’11 maggio del 1946. È la foto del concerto dopo la guerra, dopo l’esilio per chi dirigeva, dopo la devastazione per chi seguiva dentro e fuori il teatro.
Allora, come oggi.

Gran finale con 6 tra tenori e soprano sul palco per intonare l’aria “Tutto cangia” dal Guglielmo Tell di Rossini mentre dietro di loro passavano le immagini di una Milano notturna riprese dal drone che dopo i grattacieli di Citylife e la Madonnina approdano al teatro alla Scala dal cui tetto partono tre raggi con i colori della nostra bandiera.

Anche in queste caso le note hanno aperto un cassetto della memoria: qualcuno ricorderà che al termine delle prime trasmissioni Rai, negli anni ’70, si vedeva l’immagine di un’antenna che saliva verso l’alto, a indicare che la programmazione era finita.
La musica che l’accompagnava era proprio questa di Rossini.

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