L’Approfondimento: Cowboys and Indians

In questa puntata ci vogliamo occupare del rapporto del cinema americano con il dilemma, sempre presente, quando è chiamato a trattare soggetti che hanno a che fare con la conquista dei territori dell’Ovest. Ovverosia con la
necessità di coniugare il racconto del mito con la realtà storica, da cui ricavare una morale, sebbene in presenza di opere le cui parti di prosa non sempre collimano con la realtà. Ci viene anche da sottolineare, senza offendere chicchessia e tanto meno, Sergio Leone: il western è un genere cinematografico solo americano.

A partire dagli anni ’40 il già ampiamente citato, John Ford, si spinse a considerare da un’angolatura diversa le ragioni dell’altra parte, dopo che anch’egli aveva fatto vedere indiani cattivissimi. E non è che il grande vecchio guercio (portava una benda sull’occhio sinistro) non ci sia ricascato, come in “Sentieri selvaggi” (The Searchers, 1956) quando manda un vendicativo, Jonh Wayne (Ethan Edwards) alla ricerca della nipote Debbie (Natalie Wood) rapita e forzatamente sposata al capo indiano. Due le scene di questo film lasciano in segno: una quando Ethan spara negli occhi di un comanche morto, per sfregiarne il cadavere; l’altra quando, accecato dall’odio sta per uccidere anche la nipote. Ma poi con immensa tenerezza (a segnare una mai tardiva possibilità di riconciliazione) raccoglie in braccio la ragazza dicendole “Torniamo a casa, Debbie” (Let’s go home, Debbie). Tra l’altro “The Searchers”, inizia e finisce, con l’ apertura e la chiusura della porta di una casa nella prateria. Non divaghiamo… anche se non è un divagare parlare di “Sentieri selvaggi” quando si vogliano mettere in mostra le difficoltà di comunicare tra due culture così distanti. Nei rapporti, tra i cowboys e gli indiani, la radicalità nelle reazioni è diventava regola. E le relazioni erano difficili da mantenere se non attraverso la sudditanza (imposta con le stragi) o la resistenza a base di assalti e scotennamenti.
In particolare, oggi, per ragioni di spazio e di tempo, vi vogliamo parlare solo di un film. Nonostante ciò, non vi negheremo alcune citazioni sforzandoci di far comprendere la nostra succinta analisi. Il film si chiama “Soldato Blu” (Soldier Blue, 1970). Attenzione all’anno: è lo stesso in cui furono messi in distribuzione “Un uomo chiamato cavallo” (A Man Called Horse, di Elliot Silverstain) e “Il piccolo grande uomo” (Little Big Man, di Arthur Penn) due pellicole da “western antagonista” a cui si aggiungerà, molto tempo dopo, “Balla coi lupi” (Dances With Wolves, di Kevin Costner, del 1990).

La particolarità di “Soldato blu” va ricercata, per la duplice azione di denuncia. L’una, esplicitata con la condanna dei massacri ai danni degli indiani e l’altra (contestualizzata) alla guerra del Vietnam. E’ la storia di un soldato, scampato ad un attacco dei Cheyenne (l’attore è Peter Strauss) mentre una pattuglia di cavalleria riportava a casa una donna bianca, in precedenza rapita dalla tribù (con la quale aveva vissuto a lungo) e diventata, per la forza delle circostanze, sua compagna di sventura. A lei da corpo una strepitosa, Candice Bergen. I due, dopo varie peripezie, riescono a tornare all’accampamento del reggimento. Il colonnello, un idiota pieno di boria, ordina il massacro dei Cheyenne, comprese donne e bambini, nonostante i capi dei nativi si fossero presentati sotto la bandiera degli Stati Uniti e forti di un trattato con Washington. Il giovane Strauss vi assiste impotente e aggredisce il comandante. Per questo verrà incatenato. “Soldato blu” fu diretto da Ralph Nelson. Ispirato alla strage di Sand Creeck, perpetrata nel 1864, il film si riferisce, in modo quasi diretto ad un altro massacro avvenuto nel villaggio vietnamita di My Lai, distrutto da marines solo un anno prima dell’uscita del film, cioè nel 1969

Detto con scarne parole, si evidenziano le ragioni dei movimenti al tempo contestanti, all’interno degli USA, l’inutilità dell’intervento nel Sud Est Asiatico. Con questo lavoro, Nelson, imprime un cambio netto nella visone del cinema western quando la trama riguarda anche gli indiani.
L’autorevolezza del regista veniva rafforzata dall’aver combattuto con onore nella Seconda Guerra Mondiale e questo per gli americani contava molto e poi (elemento non trascurabile) pur essendo un autodidatta, Nelson, è stato in grado di sviluppare una cultura priva di stereotipi mettendo in opera un cult movie, diventato “bussola cinefila” per un’intera generazione. Infatti, a riprova delle buone letture di Nelson, con le sembianze della Bergen abbiamo una bianca rapita dai nativi come la Debbie di “Sentieri
Selvaggi”.

I nativi in quanto a massacri non erano certo immuni da colpe. Le donne, dopo le scorrerie venivano maltrattate o barattate dopo l’uccisione degli altri famigliari maschi. Una parte di storia autentica e poco esplorata, nonché assai meno documentata, dei territori conquistati dai bianchi e sulle
terribili usanze delle tribù indiane anche quando si trovavano in conflitto tra loro.
 
Sempre Ralph Nelson… nel presentare alla stampa “Soldato blu” e conscio delle polemiche che avrebbe suscitato disse: “La posizione ufficiale del governo è che noi stiamo in Vietnam per onorare un impegno. Non dimentichiamoci però che abbiamo stipulato 400 trattati con gli indiani, violandoli tutti, uno dopo l’altro” (citazione raccolta da “La conquista del west in oltre 101 film”, 1977, curata da Giancarlo Beltrame. Demetra srl, lire 12.000)
 
Peter Strauss è un attore nato nel 1947. Per lui la carriera ha avuto un’impennata con “Soldato blu”. Volto rassicurante, è diventato un solido interprete di fiction e serial televisivi.
 
Candice Bergen(1946) è figlia d’arte suo padre, Egdar, era un famoso ventriloquo nelle trasmissioni radio e sua madre, Frances, un’attrice e una modella. Se per “Soldato blu” si è dovuta “accontentare” di riconoscimenti internazionali, la statuetta dell’Oscar le è stata consegnata per l’interpretazione (attrice non protagonista) di “Startig Over” una commedia con Burt Reynolds. La Bergen si è anche creata un nome come fotografa, lavorando per importanti riviste americane.
 
Elliot Silverstein (1927) è famoso per aver diretto una commedia western, premiata da un Oscar, intitolata “Cat Ballou”. Protagonisti Jane Fonda e Lee Marvin. Eppure, secondo noi, il suo capolavoro è “Un uomo chiamato cavallo” interpretato da Richard Harris (1930-2002). E’ la storia di un signorotto inglese, del 1820. Catturato dai Sioux deve riconoscere l’alto valore morale degli indiani, incapaci di dire bugie e leali con i compagni. Silverstein rende fortemente realistico il tutto facendo parlare gli interpreti (autentici appartenenti alla tribù) nella loro lingua originale. Una chiave utilizzata poi anche da Costner, in “Balla coi lupi”.
 
Arthur Penn(1922-2010) Dopo gli esordi con “Furia selvaggia”(Billy The Kid, 1956, protagonista Paul Newman) il successo di “La caccia” (The Chase, del ’66, con Marlon Brando) e “Gangster Story” (Bonnie and Clyde, nel ’67) passò alla commedia con “Alice’s Restaurant”, del ’69. Tuttavia “Il piccolo grande uomo” rappresenta, con una scansione da “ballata”, l’esplicita denuncia (sebbene addolcita dalle ridicole imprese di Dustin Hoffman) nei confronti dell’uomo bianco sempre incline a sparare al diverso. Incapace di fermarsi di fronte al massacro. Arthur Penn ha vinto nel 2002, il “Gattopardo d’oro – Premio Luchino Visconti” per la carriera. Non è parente di Sean Penn.
 
Natal’ja Nikolaevna Zacharenko era il nome d’arte di Natalie Wood(1938-1991) come si evince figlia di immigrati russi è nata a S.Francisco. Ottenne un clamoroso successo con “Gioventù Bruciata” di Nicolas Ray. Dopo aver interpretato Debbie in “Sentieri Selvaggi” di John Ford, raggiunse l’apice con “West Side Story”, diretto in coppia da Jerom Robbins e Robert Wise. Lei impersonava Maria. L’opera, un musical creato per il teatro da Leonard Bernstein e Joseph Sondheim, prevedeva molte parti cantate e nonostante la Wood si impuntasse per volerle svolgere non fu ritenuta all’altezza e il doppiaggio venne affidato alla brava, Marni Dixson. Natalie Wood morì per annegamento, in circostanze oscure, quando si trovava a bordo di uno yatch insieme al marito, l’attore Robert Wagner e a Cristopher Walken. Famoso, quest’ultimo, per la sua parte da professionista della roulette russa nel film “Il cacciatore” (The Deer Hunter, 1978)con regista Michael Cimino.
 
My Lai è un villaggio vietnamita diventato tristemente famoso per quello che è passato alla storia come “il massacro di Song My”. In quel posto, durante la guerra del Vietnam, vennero uccisi 347 civili. Autori della strage i soldati della compagnia Charlie dell’11ma Brigata della Fanteria Leggera statunitense. Era il 16 marzo del 1968. A comandare il reparto il tenente, William Calley. Dichiarato colpevole, condannato all’ergastolo dalla corte marziale. Solo due giorni dopo, Richard Nixon, Presidente degli Stati Uniti, ordinò il suo rilascio. Calley scontò una pena di tre anni, agli arresti, in una base dell’Esercito. L’ex tenete adesso fa il gioielliere a Columbus, in Georgia.

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